Il tifo è un’altra cosa

Siamo andati a vedere Lugano – Inter, per trascorrere un pomeriggio svizzero diverso. Ci siamo anche divertiti se non fosse che – proprio mentre due sportivi gentiluomini a Wimbledon scrivevano una pagina di storia dello sport – l’imbecillità degli ultrà interisti è debordata incontenibilmente, con cori contro tutto e tutti, inclusi Pessotto e gli ebrei. Ma il bersaglio preferito è stata la città di Napoli, che dovrà essere “distrutta, il Vesuvio erutta”, mentre i suoi cittadini, si sa, non si lavano, e poi c’è il colera e siamo la “vergogna dell’Italia intera” e altre perle culturali di livello simile.

Con Federico e Stefano ci siamo alzati e ci siamo spostati, spiegando ad alta voce le nostre ragioni ai vicini di posto, mentre Federico documentava i cori imbecilli con il suo cellulare con la cover del Napoli.

Sto invecchiando e divento sempre più idealista, ma mi piace sempre meno questo sport in cui i cosiddetti top player costano come il PIL di una piccola nazione, gli stadi si svuotano, ma le curve restano piene di imbecilli ignoranti.

Ad agosto andremo a Sorrento, a ritrovare un pò delle nostre origini, il Vesuvio lo vedremo di sicuro, chissà se ci sarà pure il colera, e se riusciremo a lavarci, senza acqua potabile …

Accesso Libero

Esco dalla fermata della Metro, che ormai uso sempre meno, a Villa Fiorita, Linea MM2 o Verde, e mi dirigo verso i tornelli di uscita. Una signora davanti a me, lo sguardo incollato sul suo smartphone. Si ferma e fruga nella tasca.

Starà cercando il biglietto, penso. E allora noto che il display sul tornello in uscita dice “Accesso Libero”.

La signora continua a frugare nella tasca, senza staccare lo sguardo dallo schermo del suo smartphone.

Confesso di essere un po’ impaziente, perché è sera e voglio tornare a casa. Mi avvicino e le dico: “Scusi signora, guardi che l’accesso è libero.”

La signora non mi sente nemmeno, e continua a cercare il suo biglietto in tasca, e a leggere qualcosa di tremendamente interessante sullo schermo del suo smartphone.

Riprovo: “Scusi signora, guardi che l’accesso è libero.”

E, finalmente, la signora trova il suo biglietto, lo infila nella fessura e passa attraverso il varco di uscita, senza rendersi conto che si sarebbe aperto, anche senza biglietto.

E poi alza persino lo sguardo dal suo smartphone e mi guarda. Deve essersi accorta che ho provato a dirle qualcosa e quindi, giustamente, mi fissa con sguardo torvo, per scoraggiare qualunque altro tentativo da parte mia di rivolgerle la parola. Poi, finalmente, può tornare tranquilla a guardare lo schermo del suo smartphone, senza essere ulteriormente disturbata dal Mondo … reale?

In Piazza Duomo

Camminavo, a passo veloce, come sempre, perché in ritardo per una riunione. Quando l’ho vista.

Avrà avuto poco più di vent’anni, un viso angelico, bionda, occhi chiari, lineamenti delicati. Era con un’amica, entrambe allegre e sorridenti, sembravano saltellare tra la folla, giovani e felici.

Lo confesso, ho cercato per un attimo di incrociarne lo sguardo, ma non ci sono riuscito. Però l’ho guardata. Indossava una maglietta chiara a maniche corte, e dei pantaloncini corti blu, che le permettevano di sfoggiare una bellissima gamba … una, perché sull’altra aveva una protesi dalla coscia fino al piede, sulla quale si muoveva con leggiadria superiore a quella dei miei figli, che fanno danza classica.

Ho rivolto uno sguardo di saluto all’angelo biondo che quel pomeriggio aveva incrociato la mia strada e ho continuato a camminare verso la mia riunione, consapevole – una volta di più – che il Mondo è un posto incredibile!

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei

Networking è ancora una delle parole più in voga nel mondo del lavoro. Resiste a tutti i cambiamenti epocali in atto, dalla smaterializzazione dell’ufficio allo smart working, dalla digitalizzazione al coworking. E in nome del networking, ancora ore e ore della nostra vita possono essere immolate sull’altare di riunioni fiume, e cene dove poi si finisce stancamente a parlare di lavoro e dei colleghi, tra uno sbadiglio e una sbirciata all’onnipresente smartphone accanto al piatto, come una quarta posata, insieme a forchetta, coltello e cucchiaio.

Lungi da me negare che un minimo di conoscenza personale aiuti a lavorare meglio. E’ vero che aver incontrato un collega di persona poi rende molto più facile anche il lavorare in futuro in modalità remota, al telefono, o via web. E un contatto personale può diventare un’opportunità di lavoro.

E’ altrettanto vero, come sosteneva un mio ex collega “maestro” di networking, che la regola principale da seguire è sempre la stessa: passare il tempo con le persone con cui ci piace stare. Se devo fare fatica, forzarmi a sopportare dei colleghi, o potenziali contatti, solo per la speranza di poterne avere in cambio qualcosa in futuro, io preferisco lasciare stare. Preferisco identificare le persone che mi sono simpatiche, con cui sto bene, e stare con loro. Magari il network funziona lo stesso, male che vada passo il mio tempo in modo piacevole.

E nella mia esperienza, questo vale anche nello scegliersi i collaboratori con cui lavorare. Mi piace lavorare con persone innanzitutto brave e motivate, che sappiano fare il proprio lavoro, ma anche con cui si possa star bene, e che condividano i miei valori. E’ di qualche giorno fa la pubblicazione dell’intervista alla figlia del grande Steve Jobs, che descriveva come il suo fosse un padre insopportabile. Pazienza se, selezionando le persone con cui si sta bene, si rischia di tagliare fuori un Jobs. Tanto, in Italia si sa che non ce ne sono molti … di Jobs!!!

Cosa ci insegnano i Mondiali di calcio

I Mondiali ci danno una lezione di integrazione: i goal di Mbappe e Pogba sono tra le migliori risposte al populismo xenofobo della Le Pen, e se la Svizzera fosse andata un po’ più avanti grazie a Xhaka e Shaqiri, i sovranisti di Blocher e Bignasco non ne sarebbero stati contenti. E che peccato che non ci sia stata l’Italia, con Balotelli al centro dell’attacco, nel mezzo della polemica sui migranti. Lo sport incarna quello che succede a livello più generale e conferma che la globalizzazione e la multi-etnicità sono fenomeni che è giusto controllare ma non si possono arrestare o liquidare, in modo semplicistico.

I Mondiali ci fanno riassaporare lo sport vero: le squadre più forti non sono sempre le stesse, le partite sono equilibrate e i risultati non scontati, contano il talento individuale, il gioco di squadra e la fortuna, non solo i soldi. Non è il calcio dei club, puro show business dominato da calciatori rockstar e dai loro agenti, dove quattro o cinque club la fanno da padrone, e fanno notizia gli ingaggi e le clausole contrattuali, molto più degli schemi e dei colpi di tacco.

I Mondiali dimostrano la forza del marchio e della tradizione: ce la mettono tutta per rovinarli, piegandoli alle esigenze delle TV e della geopolitica, ma loro resistono. Resisteranno anche a Infantino e alla sua idea di una competizione a 48 squadre, in inverno e in Qatar. Resisteranno perché, come e forse più delle Olimpiadi, sono l’evento in cui ognuno si riscopre sportivo, che sia cresciuto guardando Pelé e Rivera, o Maradona e Zoff, Gentile, Cabrini, oppure Messi e CR7.

W i Mondiali, e speriamo di esserci anche noi in quelli del Qatar, che diamine, un posto su 48 potrà pure essere il nostro!

Voglio ‘o mare

“Sono nato a Napoli, perciò mi piace il mare”. Lo cantava Pino Daniele in “Mal di te”. Non so se sia per via delle mie origini, del fatto che sono nato e ho trascorso tutta la mia giovinezza in un posto di mare. Si dice che “a quelli come me” il mare rimanga dentro, e non vederlo per troppo tempo provochi una vera e propria crisi di astinenza.

Non so se sia vero, ma so che stamattina mi sono svegliato con tanta nostalgia del mare. Nostalgia di quando andavo a guardare il mare e mi rilassavo, qualunque cosa mi agitasse. Mi sentivo piccolo, tutto perdeva di importanza e diventava minuscolo davanti a quella distesa d’acqua. E nei giorni in cui l’aria era più cristallina, mi sembrava di poter guardare dentro le finestre delle case costruite alle pendici del Vesuvio, oppure sognare di posti favolosi oltre l’orizzonte ottico.

Nostalgia di quando potevo fare il bagno da aprile a novembre e sentirmi un guerriero ad affrontare l’acqua fredda, per quanto fredda possa diventare l’acqua nel Golfo di Napoli.

Ho chiuso gli occhi, e la nostalgia lentamente ha iniziato a dissolversi, ma un pizzico di magone mi è rimasto, fino a quando, con Giuliana, non ci siamo tuffati nella piscina dell’Enjoy per la nostra oretta domenicale di nuoto libero … In tempo di tempesta, ogni pertugio è porto!

 

Qualcosa da evitare, se si può

Non ci sono solo cose che mi (ci?) rendono felice, che giustamente bisogna cercare di praticare e aumentare nella vita, ma anche cose mi rendono infelice, e che bisognerebbe per quanto possibile, evitare.

Una, per esempio? Rimuginare. Purtroppo, capita a tutti di avere qualche rimpianto, di pensare: “sarebbe stato meglio se quella volta avessi agito diversamente”. E’ normale, umano, inevitabile. Nel mio caso, di recente mi capita spesso di pensare: “sarebbe stato molto meglio se qualche anno fa, quando ne avevo ancora l’opportunità, fossi tornato a vivere e lavorare in America. Avrei guadagnato di più, fatto crescere i miei figli in un ambiente con maggiori stimoli e opportunità, con minori preoccupazioni per il futuro. Sarei stato immerso in un ambiente che pensa in modo più positivo, con meno burocrazia, che non è soffocato dalla crescita cosiddetta zero virgola, la disoccupazione, la questione meridionale, la storia infinita della legge elettorale …”

L’erba del vicino è sempre più verde, anche quando il vicino è me stesso in un “ramo parallelo” della mia possibile vita. Ed è chiaro che, sviluppandosi la vita diversamente, magari invece in America, sarei stato peggio, avrei guadagnato di meno, i miei figli si sarebbero trovati male a scuola, oppure mi sarei schiantato in un incidente sulla Route 1 … Magari, perché la verità è che non lo sappiamo. E’ difficile pensare, come Candido di Voltaire, che la nostra è la migliore delle vite possibili, nel migliore dei mondi possibili.

Quindi, io mi sono rassegnato al fatto che rimuginare è inevitabile, ma perché non cercare di pensare a quello di buono che c’è nella nostra vita e fare a volte l’esercizio, quando ci prendono i rimpianti, di pensare non a “come sarebbe potuto essere meglio”, ma a come “sarebbe potuto essere peggio”? Io ci provo, a volte, ed è anche divertente!